Nella popolazione indigena dei grandi cani da guardia tibetani è possibile individuare una relativamente eterogenea varietà autoctona stratificata sul territorio, ed un più definito modello standardizzato dall’etnia maggioritaria.

COME SONO SCELTI I CAPOSTIPITI NEL TIBET

Il Tibet offre una popolazione canina quantitativamente molto vasta a fronte di un pool genico relativamente contenuto, la cui natura, per quanto oggetto di dibattito fin dall’Ottocento, non è mai stata davvero compresa dagli osservatori forestieri. L’ambiguo binomio mastino tibetano, coniato nell’Inghilterra del XIX secolo e successivamente utilizzato in modo indiscriminato per identificare ogni cane da guardia delle contrade di quel Paese, dentro e fuori i suoi confini storici, ha fortemente contribuito ad alimentare l’incomprensione. L’assimilazione del lemma incriminato alla formula tibetana do khyi (propriamente «cane da legare» e quindi, genericamente, cane da guardia) a causa di un errore interpretativo diffuso nel 1937, è diventato un assunto che, al pari di altri fraintendimenti e refusi, sono stati mai più messi in discussione.


Tale radicata e pervicace incomprensione è sostanzialmente dovuta ad un non approfondimento delle documentazioni storiche disponibili e all’assenza di un’inchiesta tra la popolazione indigena, affidandosi alle tensioni individuali e, in tempi più recenti, a presunti esperti cinesi di etnia non tibetana. Quest’ultimi, i quali nella realtà hanno compreso ancor meno degli osservatori occidentali la natura dei cani del Tibet, si sono resi protagonisti – tra l’altro – della divisione del cosiddetto “mastino tibetano” in inesistenti sub-varietà geografiche che, in tal modo, qualificano come legittimo modello di una presunta medesima razza qualsiasi cane di taglia non piccola osservabile nel Tibet, inteso come area vagamente geografica e non invece come area strettamente etnica. L’importanza dell’etnia dominante nella continuità di un tipo di cane, soprattutto laddove la selezione morfologica è influenzata da fattori multilivello che includono le più radicate credenze religiose, è un concetto totalmente estraneo a chiunque si sia interessato a scrivere sull’argomento. 


L’incomprensione e massificazione dei cani del Tibet, l’invenzione delle varietà locali e la ricerca di un modello migliore secondo presupposti estetici empirici, hanno incoraggiato diffusi meticciamenti in ambito allevatoriale, oppure fatto favorire soggetti che suggestionano l’osservatore, suggerendo una maggiore primitività per caratteristiche fenotipiche del tutto estranee alle motivazioni della selezione tradizionale tibetana. 


La nostra ricerca iniziale era uniformata a questo approccio tendenzialmente fenomenico, riassumibile nella concezione di un cane ideale dai contorni, tuttavia, evanescenti. Solo la progressiva consapevolezza del pregiudizio insito nell’eredità culturale che veniva tramandata ci ha spinto a fermarci, spostando la meta dei nostri viaggi dal Tibet a polverosi archivi di diverse capitali occidentali. La realtà emersa dalla ricerca sarà approfonditamente esplorata nel circuito della BDTS, ma si può sintetizzare in una diversificazione solo apparente dei cani del Tibet, perché essa stessa fortemente verticalizzata. La comprensione dell’esistenza di un unico modello di riferimento nell’area etnica tibetana, e che non riguarda l’intera area geografica tibetana, ha portato inoltre all’individuazione della precisa località nella quale era maggiormente concentrata tale forma apicale fino alla prima metà del secolo scorso e dove, tuttavia, oggi non è più presente. Una località, si aggiunge, totalmente estranea ai luoghi delle insussistenti varietà geografiche inventate da un singolo autore cinese, successivamente riprese nella paraletteratura di quel Paese ed infine amplificate dall’eco della dilagante disinformazione digitale che affligge ed avvolge questi antichi cani.


La ricorrente idea della landrace, e quindi di una tipologia canina formatasi in modo semi spontaneo grazie al solo isolamento sessuale, non è applicabile ai cani dello strato etnico tibetano, avendo subito essi stessi una forte pressione selettiva, almeno nel periodo compreso tra l’avvento del buddhismo nel Tibet nel VII secolo e la prima metà del Novecento. Fino a quel momento, la relativa variabilità dei cani da guardia indigeni era dovuta principalmente all’ibridismo, in alcuni casi involontario, essendo radicata in quel Paese una consistente popolazione di cani paria e carovanieri, ma più spesso finalizzato proprio al raggiungimento di un modello unitario.


L’etnia tibetana, per quanto maggioritaria e a sua volta diversificata in nutriti sottogruppi, non è mai stata la sola abitatrice dei territori tibetani. Altre popolazioni insistono in zone periferiche del Tibet storico, sia nel versante occidentale che in quello nordorientale, allevando cani da guardia di buona taglia senza i vincoli tendenzialmente imposti dalla selezione tradizionale tibetana. In questo caso, l’utilizzo del termine landrace, o varietà autoctona, appare maggiormente proporzionato. Verosimilmente, la landrace stratificata in tutti i territori tibetani ha un’origine antecedente la razza standardizzata ed inseguita dalla maggioranza dei tibetani. La relazione tra i due macrogruppi, mai davvero disgiunti, è probabilmente ascendentale. La presenza di altre tipologie canine nell’area, sottoforma di modelli correnti e “popolazioni fantasma”, rende la realtà, comunque, alquanto articolata. 


Per queste motivazioni, fortemente semplificate in relazione al contesto, ma che saranno anatomizzate in ulteriori approfondimenti con il sussidio delle fonti documentali, non avendo noi una reale ambizione allevatoriale, ma essenzialmente esplorativa della natura di questi animali, la scelta degli esemplari importati ha iniziato ad interessare il cane da guardia autoctono tibetano nelle sue caratteristiche comuni e non esplicitamente indotte da diverse varietà canine presenti nella regione, conservando una capitale attenzione nei riguardi della razza tibetana in quanto tale. 



TIBETAN INDIGENOUS GUARD DOGS

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